4 maggio 2013

Forma(L)mente risotto


Il mio blog come un calendario: un post al mese, che invita alla lettura, ma senza fretta perché tanto la pagina resterà invariata per almeno 30 giorni. Da queste parti il 'fast' è stato messo un po' in disparte, ho dovuto ammettere a me stessa che tutto quello che voglio fare-vedere-imparare-visitare non mi sarà concesso in una sola vita, e allora tanto vale concentrarsi su poche cose e farle con la dovuta attenzione.
Lo sapevate che sono laureata in architettura e ho un diploma di grafica pubblicitaria? Già detto, e forse anche ripetuto. Però vi chiederete cosa c'entrano i titoli con un blog di cucina. Scrivevo nell'ultimo post (QUI), che ho il cervello in uno stato di perenne tensione da idee, e ho dovuto fare i conti con la forma mentis che ho modellato negli anni e che influenza in gran parte il mio approccio al mondo e a questo blog. Ho potuto constatare che le foodblogger sono ampiamente rappresentate da un nutrito gruppo di 'architetti-donna', anche se ancora mi sfugge il legame tra chi si dovrebbe occupare di progettazione, urbanistica e restauro e il cibo. Per quanto mi riguarda, una risposta me la sono data: quando guardo il cibo, la prima cosa che fa il mio cervello è tradurre in forma, colore e texture quello che vede. Non importa che il cibo sia del contadino o del supermercato; che sia di stagione, esotico o extraterrestre. Che si trovi in un ristorante o nella mia cucina. Quello che mi colpisce è la sua 'grafica' e la sua collocazione nello spazio. 
Guardo un cibo in 3D e poi in 2D; ne annullo inconsciamente la profondità perché esso, per quanto mi riguarda, è prima di tutto un'immagine. Ho bisogno di individuarne la forma prima di conoscerne il sapore, la provenienza e la ricetta. Questa è la mia natura che è stata accentuata dagli studi che ho intrapreso. La grafica pubblicitaria spinge alla razionalizzazione della forma: nello studio di un marchio, è fondamentale arrivare all'essenza di quello che si vuole rappresentare attraverso un simbolo grafico; la scelta delle linee e dei colori fanno davvero la differenza perché sono il veicolo attraverso il quale comunichiamo un messaggio. E' per lo stesso motivo che periodicamente sentiamo la necessità di fare un restyling alla nostra acconciatura o all'header nel nostro blog :-)
Tuttavia dimora lontanissimo da me il pensiero moderno che vuole che 'l'apparire sia più importante dell'essere'. Incarno l'antimoda per eccellenza: lo shopping lo farei per procura e il parrucchiere è una perdita di tempo... Eppure, l'interesse verso l'estetica della forma è così vitale da interessare la  forma stessa del cibo.
Chi mi legge avrà compreso che per me il cibo deve essere anche (o soprattutto?) sperimentazione. Le prove di cucina molecolare sono solo una tappa del percorso che ho inconsciamente intrapreso una decina di anni fa, la cui genesi fu una crostata dolce con crema pasticcera, cipolle e radicchio (!) che si rivelò una combinazione decisamente infelice, ma che inaugurò la strada alla mia curiosità culinaria. Pur amando da morire le lasagne della mamma (che è un'ottima cuoca), un buon brasato con polenta o il tiramisù, la mia attenzione non è rivolta alla tradizione e alle ricette di famiglia. Il mio interesse è per qualcosa che ancora non c'è e che qualcuno ha l'obbligo etico e morale di pensare. Provo una profonda ammirazione per gli innovatori, per coloro che osano e sperimentano rompendo con il passato (che conoscono e che hanno studiato) per proiettarsi nel futuro con la forza dei visionari. Vorrei avere anche solo una scintilla della loro intuizione per sapere cogliere quello che ancora non esiste.
Con grandissima soddisfazione, qualche giorno fa ho visitato la mostra "Progetto cibo. La forma del gusto" presso il Museo di Arte Contemporanea (MART) di Rovereto. Lì, in un solo luogo, ho trovato tutto quello che sta nei miei pensieri. Il cibo inteso non solo come alimento ma soprattutto come Funzione, Decorazione, Progettazione, Design, Humor e Metafora, Materia, Etica e Futuro. Il cibo spogliato della sua immagine più classica e rivestito con abiti diversi. Il mio vero punto di partenza.
Il grandissimo Bruno Munari nel 1963 scriveva 'Tutto è progetto, anche (e soprattutto) il cibo'. Qui di seguito, un estratto dal suo libro "Good Design" (1998)

L'arancia come esempio di Good Design
L’oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse verticale, al quale ogni spicchio appoggia il suo lato rettilineo mentre tutti i lati curvi volti verso l’esterno, danno nell’assieme come forma globale, una specie di sfera.
L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione tra l’esterno e l’assieme dei contenitori. Il materiale usato è tutto della stessa natura, in origine, ma si differenzia in modo appropriato secondo la funzione. L’apertura dell’imballaggio avviene in modo molto semplice e quindi non si rende necessario uno stampato allegato con le illustrazioni per l’uso. Lo strato d’imbottitura ha anche la funzione di creare una zona neutra tra la superficie esterna e i contenitori così che, rompendo la superficie, in qualunque punto, senza bisogno di calcolare lo spessore esatto di questa, è possibile aprire l’imballaggio e prendere i contenitori intatti. Ogni contenitore è a sua volta formato da una pellicola plastica, sufficiente per contenere il succo, ma naturalmente abbastanza manovrabile. Un debolissimo adesivo tiene uniti gli spicchi tra loro per cui è facile scomporre l’oggetto nelle sue varie parti tutte uguali. L’imballaggio, come si usa oggi, non è da ritornare al fabbricante ma si può gettare. Qualcosa va detto sulla forma degli spicchi: ogni spicchio ha esattamente la forma della disposizione dei denti nella bocca umana per cui, una volta estratto dall’imballaggio si può appoggiare tra i denti e con una leggera pressione, romperlo e mangiare il succo. Si potrebbe anche, a questo proposito considerare come i mandarini siano una specie di produzione minore, adatta specialmente ai bambini, avendo lo spicchio più piccolo. Oggi purtroppo con l’uso delle macchine spremitrici tutto viene confuso e gli adulti mangiano il cibo dei bambini e viceversa. Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio. 
L’arancia quindi è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo. 
Persino il colore è esatto, in blu sarebbe sbagliato. Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie e a livello internazionale dove l’assenza di qualunque elemento simbolico espressivo legato alla moda dello styling o dell’estètique industrielle, di qualunque riferimento a figuratività sofisticate, dimostrano una conoscenza di progettazione difficile da riscontrare nel livello medio dei designer. Unica concessione decorativa, se così possiamo dire, si può considerare la ricerca “materica” della superficie dell’imballaggio trattata a “buccia d’arancia”. Forse per ricordare la polpa interna dei contenitori a spicchio, comunque un minimo di decorazione, tanto più giustificata come in questo caso, dobbiamo ammetterla.

Pertanto, posso dire di aver attribuito un significato (ipotetico) alle mie idee. Spero possiate perdonarmi se esse non sempre troveranno una degna realizzazione. 
Questa volta vi propongo un risotto alla milanese rappresentato come una birra e costretto dentro ad un vetro ma con uno spumeggiante condimento. Praticamente un gioco.



Risotto allo zafferano con spuma di panna al parmigiano reggiano
Per due persone

Per il risotto
200 gr di riso Carnaroli
1 litro di brodo vegetale
1 bustina di zafferano
2 cucchiai di parmigiano reggiano
2 cipollotti freschi
olio extravergine di oliva
sale 

Per la spuma
200 ml di panna fresca non zuccherata
3 cucchiai abbondanti di parmigiano reggiano
sale e pepe bianco


Preparare in anticipo il brodo vegetale usando verdure a piacere (per me il classico sedano, cipolla, zucchina, carota e patata), aggiustare di sale. Filtrare il brodo. Al momento della preparazione del risotto, rimetterlo sul fuoco e tenerlo sempre ben caldo.

Tritare finemente la parte bianca dei cipollotti, farli rosolare a fuoco basso in una padella con un paio di cucchiai di olio; aggiungere il riso e farlo tostare per qualche minuto. Aggiungere un paio di mestoli di brodo e continuare a mescolare ripetendo il procedimento non appena il brodo verrà assorbito. A metà cottura, sciogliere in un po' di brodo lo zafferano e versarlo nel riso continuando a mescolare; regolare di sale. Continuare fino alla cottura desiderata. Togliere dal fuoco, aggiungere due cucchiai di parmigiano, mescolare e lasciare riposare un minuto coperto.
Un paio di ore prima della preparazione del risotto, mettiamo la ciotola in cui verrà montata la panna nel frigorifero; la tireremo fuori solo nel momento in cui dovremo montare la panna che dovrà essere anch'essa fredda. Versare la panna nel contenitore, aggiungere il parmigiano reggiano, un po' di sale e una grattata di pepe bianco. Montare con fruste elettriche iniziando con velocità bassa per poi aumentarla, fino ad ottenere una schiuma soda e lavorabile. La schiuma la prepareremo prima della preparazione del risotto, ricordandoci di riporla in frigorifero fino al momento del suo utilizzo.
Al momento di servire il risotto, possiamo porlo in due bicchieri e guarnirlo con la schiuma del parmigiano, oppure usare i piatti e servire il risotto con delle quenelle di panna al parmigiano.
Ho preferito evitare di mantecare il risotto con burro data la presenza della panna che al contatto con il riso caldo si scioglierà; per mantenere un sapore delicato, ho evitato di sfumare il riso con il vino.